Come ogni quattro mesi è arrivato il tempo delle ferie, dei ritorni a Lecce, del riabituarsi alla tastiera italiana che prevede la è con l’accento e ha la @ a portata di indice destro e non di medio sinistro.
Per passare il tempo nel tragitto tra Fiumicino e casa ho inventato un gioco: trova anche tu i difetti dell’Italia. Ed è storicamente un fioccare di differenze tra il Belpaese e la Spagna, di sorrisi per non piangere, di una frase che mi ripeto continuamente “Benvenuto in Italia”. Ma no, non questa volta. Ho notato un’aria diversa, piccoli segnali di ottimismo, del “vuoi vedere che…?“.
Mi presento alla biglietteria di Trenitalia dell’aeroporto di Fiumicino, demoralizzato da una fila non proprio corta. Arriva il mio turno e mi vedo scavalcare da una ragazza con i suoi dieci euro in mano che urla al funzionario in giacca e cravatta (30°C, umidità 120%): “mi da un biglietto per Termini?”. Tipico italiano. Eccola qua, la solita furba che, fingendo sicurezza, è convinta di poter scavalcare tutto e tutti. Ma non questa volta. Il tipo incravattato mi guarda e chiede: “Era prima di te?”. Gli rispondo di no ma che per me fa lo stesso (sono francamente stanco di lottare). E lui, virgolettato “No, fa lo stesso un cazzo! E lei, signorina, deve andare dietro alla fila, per ultima, come tutte le persone normali”. “O Signur!”, penso (cito l’espressione di @federchicca), questa non me l’aspettavo! Un sano e tipico sopruso trova risposta in indignazione, in una ferma presa di posizione. Ottismo.
Quasi pago volentieri i 14 euro (quattordici €) che separano Fiumicino da Termini, 28 minuti, quattromila lire ogni 120 secondi, per non aver nemmeno il piacere di veder controllato e punzecchiato il mio biglietto. Avrò preso questo treno una decina di volte, andata e ritorno, e mai, dico mai, ho visto un controllore aggirarsi tra gli scompartimenti. Ma non questa volta. Una ragazza sui venticinque anni, dal foulard multicolore e dalla camicia stirata, vaccina il mio tagliando con un affare meccanico lucente. Cosa da Guerre Stellari, o da paese normale. Non tanto nel ritardo accumulato, 8 minuti su 28 di tragitto, . Ottimismo. Arrivo a Termini che sembra un camping in agosto o Londra dopo un bombardamento tedesco: corpi, cadaveri di persone accaldate, panchine occupate orizzontalmente, umidità che sa di grasso e di sigarette. Amo Roma Termini anche per questo, amo la notte di Roma Termini.
Arriva il mio Intercity notte con la mia cuccetta e le mie nove ore di sonno alterno tra scorregge di bambini, anziani che russano e tentativi di furto con scasso alle quattro di mattina. Quasi mi commuovo quando al posto della solita cuccetta resa famosa da memorabili film di Alberto Sordi o Gian Maria Volontè, quella cuccetta che per montarla serve un commesso di Ikea, quella cuccetta marrone carica di litografie post-guerra di Roma o Pisa, trovo un vagone seminuovo, quelli utilizzati negli anni ’90 nella tratta Milano-Parigi. Spinto da tanta allegria chiacchero con un ragazzo marocchino ed un rumeno. Altri mi guardano: “Cosa starà tramando quel pazzo?” . Beh, ci diamo del buon viaggio, io verso la mia cuccetta loro verso la fuga eterna dal controllore. Sorrido perchè l’ho fatto pure io, ed è divertente. Fatelo.
Ho dormito come un sasso. Fino agli ulivi, fino alla mia terra. Ottimismo.
Sono state tutte coincidenze che hanno rallegrato il mio viaggio. Ho comunque francamente notato tra le righe qualche cambiamento. Come se quella garanzia, sottoscritta anni in data imprecisata da questo popolo di matti e arraffoni che siamo, stesse per scadere. Come un telefonino nuovo di zecca cadutoci nel water ma che riportiamo indietro con la banale scusa “L’ho acceso e puf! Non funzionava!”. Telefonino nuovo ma all’italiana. La gente anticipa i grandi cambi spesso con gesti normali, che poi normali non sembrano più. E voi lo notate quest’ottimismo? Parliamone.